RUBRICA - Le parole per dirlo

Le scarpe della verità

“Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe”: questa frase gira in rete attribuita allo scrittore americano Mark Twain, il padre letterario di Tom Sawyer e Huckelberry Finn, e pare invece non sia sua, ma (forse) di Jonathan Swift, che “papà” lo era invece del medico viaggiatore settecentesco Gulliver. Nell’escalation di terrori che viviamo, da un’emergenza a un’altra emergenza che fagocita quella precedente, questa battuta amara potrebbe aiutarci a cercare una prospettiva diversa. Cosa è vero e cosa falso? Cosa è chiaro e cosa offuscato? Di chi fidarsi quando le fake news e la guerra mediatica sono l’altra faccia, se possibile ancora più sporca, di ciò che accade? E come fare pace con le contraddizioni dalle quali ci sentiamo sopraffatti?
Siamo tutti un po’ malati. E la malattia ha un nome: infodemia. È un neologismo coniato nel 2003 dal giornalista David J. Rothkopf in un articolo del Washington Post – “When the buzz Bites Back” – nel quale si parlava dell’epidemia di Sars: “Pochi fatti, paura, speculazioni e chiacchiere, amplificate e continuamente rilanciate dalle tecnologie di informazione moderne che infettano le economie nazionali e internazionali, la politica e anche la sicurezza.” Il 2020 è stato l’anno dell’affermazione di questo termine, adesso è qui e non se ne andrà facilmente. Dal sito dell’Accademia della Crusca possiamo andare a leggerne le sfumature semantiche. È un acronimo (ovvero un nome formato dalle iniziali di altre parole) che si compone così: Infodemic= info(rmation) + (epi)demic. La quantità di informazioni contraddittorie che ci raggiunge ogni giorno è difficile se non impossibile da tollerare e smaltire per un cervello umano, si rischia il coma. Le nostre reazioni a questa overdose sono spesso irrazionali ed emotive: ci sentiamo sollecitati e costretti a dire la nostra, a schierarci in tempo reale, spesso solo per un click o un mi piace in più. Come sopravvivere?
C’è chi ogni tanto sente il bisogno di staccare tutto: tv, mezzi di comunicazione, social media, e si prende delle pause. Ma in queste pause è facile s’insinui il senso di colpa e la sensazione di essere completamente tagliati fuori, matti fuori tempo massimo che si tappano le orecchie per non sentire il fischio del vento e paradossalmente si ritrovano con in testa il rombo dei propri pensieri. Quali potrebbero essere gli antidoti per questo veleno? Difficile ormai dirlo. Forse, il primo passo potrebbe essere quello di educare il pollice a contare fino a cento prima di cliccare MI PIACE. Aspettare prima di condividere un contenuto. Ma non è detto che funzioni.
Ogni tanto mi torna in mente Ulisse. Ulisse l’inquieto, controverso ma astuto eroe omerico. Ulisse, che tappa con la cera le orecchie ai suoi marinai, ma non a sé stesso, e si fa legare all’albero maestro della nave per poter ascoltare l’ammaliante e oscuro canto delle sirene ingannatrici senza farsene rapire, perché non può e non deve interrompere il suo viaggio. Siamo tutti in viaggio verso un’agognata verità che forse non possiamo più trovare da nessuna parte. Invece di legarci all’albero maestro di una nave potremmo provare a legarci i pollici quando abbiamo uno smartphone in mano. Aspettare a condividere, respirare, aspettare. Magari, nel frattempo, la verità avrà fatto in tempo ad allacciarsi almeno una scarpa.

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