Mangiare pochissimo, o tantissimo. Lasciarsi morire di fame o ingurgitare cibo fino ascoppiare e poi vomitarlo, tutto quel cibo, come un dolore a lungo represso. Oppure mangiare fino a scoppiare per riempire il vuoto che si ha dentro. Sono le diverse manifestazioni dei disturbi della nutrizione, cioè anoressia, bulimia nervosa e “binge eating”, ovvero l’alimentazione incontrollata. Negli ultimi anni sono diventati una vera e propria emergenza, per l’ampiezza del fenomeno e per gli effetti devastanti che hanno sulla salute e sulla vita di adolescenti e giovani adulti. «In Italia – spiega Laura Dalla Ragione, psichiatra e psicoterapeuta, responsabile scientifica di SOS Disturbi Alimentari – la stima è di circa tre milioni di ammalati. Nel 2020 sono morte per questo più di 3 mila persone. Tra il 2019 e il 2020 c’è stato un aumento di circa il 30% dei disturbi alimentari, con un abbassamento dell’età molto preoccupante».
Un’emergenza che ha convinto il Governo a intervenire: la legge di bilancio ha istituito presso il ministero della Salute un fondo per il contrasto dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, con una dotazione di 15 milioni di euro per il 2022 e di 10 milioni per il 2023, al quale possono accedere tutte le Regioni. Ma ancora più importante è il riconoscimento dei disturbi alimentari in una categoria dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza, il che obbligherà le Regioni a dotarsi di servizi che potranno fornire adeguata assistenza alle famiglie.
Ma perché questo aumento dei casi? «La pandemia e le misure restrittive – prosegue Dalla Ragione – sono state un evento traumatico soprattutto per i giovanissimi: l’isolamento, non poter avere una vita sociale, la Dad, la paura del futuro, la dimensione a volte claustrofobica della famiglia hanno aumentato la sofferenza di tante ragazze e ragazzi. In parte c’è stata quella che noi chiamiamo slatentizzazione, ovvero il venire allo scoperto di un disagio, una sofferenza sommersa che probabilmente c’era da prima. Ad esempio, nel 2021 c’è un forte aumento nell’accesso delle persone di sesso maschile ai servizi specialistici per i disturbi alimentari. Il che non vuol dire che sono aumentati i maschi con disturbi, ma che per la prima volta i maschi hanno chiesto aiuto, cosa molto difficile per i ragazzi». Al dicembre 2021, comunque, risultano in carico ai 91 centri pubblici dedicati alla cura dei disturbi alimentari oltre 8 mila utenti. Al 90% sono ragazze, il 59% tra i 13 e i 25 anni di età. Il 6% sotto i 12 anni. La patologia maggiormente diagnosticata è l’anoressia nervosa (42%), seguita da bulimia (18%) e “binge eating” (14%).
Come riconoscere un disturbo alimentare? «I primi segnali a cui i genitori dovrebbero prestare attenzione – spiega la psichiatra – sono determinate azioni ripetute e costanti nel tempo, specie in caso di anoressia nervosa: diminuzione drastica dell’alimentazione, troppa attività fisica, riduzione del cibo in pezzettini durante i pasti, andare ripetutamente in bagno, selezione degli alimenti, specchiarsi in continuazione, pesarsi molto spesso. Ma dobbiamo ricordarci che il disturbo dell’alimentazione è una patologia psichiatrica, quindi si assiste anche a un vistoso cambiamento di carattere. I ragazzi diventano tristi, irritabili, nervosi, spenti. Tutte queste cose devono insospettire i genitori e indurli a rivolgersi immediatamente a un centro specializzato».
A questo proposito segnaliamo il numero verde 800 180 969 della presidenza del Consiglio: dà informazioni sui centri presenti su tutto il territorio nazionale. «Tuttavia la distribuzione di questi centri sul territorio – spiega Dalla Ragione – è davvero a macchia di leopardo: in alcune regioni virtuose ci sono molti servizi, in altre no. Questo produce una sorta di migrazione tra una regione e l’altra che obiettivamente è un grande stress per le famiglie». Secondo una mappatura del ministero della Salute, sono 48 i centri al Nord (di cui 16 in Emilia-Romagna), 14 al Centro, e 29 tra Sud e isole.
Ma quali sono le differenze tra bulimia, anoressia e “binge eating”? «Nell’anoressia le persone non mangiano e hanno una forte ossessione relativa al controllo del peso e delle forme corporee. Un’ossessione condivisa dalle persone bulimiche, che però usano il vomito autoindotto per controllare il peso. Come le persone anoressiche, anche quelle bulimiche possono arrivare alla magrezza estrema. Il terzo disturbo, il “binge eating”, è caratterizzato da grandi abbuffate e perdita di controllo. Quindi qui uno dei segnali è anche l’aumento di peso. Tutti questi disturbi hanno tuttavia un filo conduttore comune, ovvero l’ossessione per il cibo e per le forme corporee. È una cosa che dico sempre alle ragazze che ho in cura: tu che pesi 30 chili e tu, che invece ne pesi 100, siete ossessionate entrambe dalla stessa cosa: cosa fare per dimagrire».
Ma guarire si può? Sì. Ma a certe condizioni. «La prima – spiega la dottoressa – è la precocità dell’intervento: deve essere il prima possibile, possibilmente nel primo anno di storia della malattia. La seconda è la continuità delle cure: non si guarisce in un mese o in due mesi, sono stupidaggini. Queste sono patologie psichiatriche che hanno un versante corporeo. Deve guarire il corpo ma soprattutto la mente, perché se non guarisce la mente, il corpo si riammala un’altra volta. Mi arrabbio molto quando sento dire che si muore di anoressia. Si muore solo se non si arriva alle cure: oggi l’anoressia e gli altri disturbi alimentari sono patologie ben trattabili e guaribili». L’importanza dell’identificazione e dell’intervento precoce – si legge anche in una nota dell’Istituto superiore di Sanità – sta nel fatto che, se non trattate adeguatamente, tali patologie aumentano il rischio di danni permanenti a carico di tutti gli organi e apparati dell’organismo, danni che possono portare anche alla morte.
E quando si parla di cure efficaci è importante sottolineare che l’approccio deve essere multidisciplinare. «Una patologia concatenata, come sono tutti i disturbi dell’alimentazione, deve essere curata contemporaneamente su più versanti. Lo psichiatra – spiega Dalla Ragione – da solo non basta e, per quanto bravo, il dietista non basta». Lo conferma anche l’Istituto superiore di Sanità: l’esperienza maturata e riferita dai professionisti del settore evidenzia l’importanza di prevedere per queste condizioni un intervento precoce, strutturato e multidisciplinare, che si avvalga della collaborazione di diverse figure professionali.
Ecco perché nei centri pubblici si prevede l’integrazione di diverse tipologie di intervento: psicoterapeutico, educativo, nutrizionale, farmacoterapico, di riabilitazione fisica e sociale. Anche l’assistenza al paziente può mutare: prevalentemente è ambulatoriale specialistico (92%). Ma può essere anche semiresidenziale o residenziale. Per coordinare tutti gli interventi, un tavolo di lavoro coordinato dal ministero della Salute ha elaborato le “Raccomandazioni per interventi in pronto soccorso con un codice lilla” e le “Raccomandazioni per i familiari”. La redazione dei documenti – spiega il ministero – è stata fortemente sollecitata sia dalle associazioni dei familiari, sia dagli operatori sanitari che hanno bisogno di strumenti pratici per un argomento in cui ancora oggi, purtroppo, esiste una estrema disomogeneità di cura e trattamento sull’intero territorio nazionale. Il codice lilla, in pronto soccorso, servirà per accogliere i pazienti con disturbi alimentari e avviare un adeguato percorso terapeutico da subito. Medici, infermieri e operatori sanitari potranno così aiutare non solo coloro che presentano questi disturbi, ma anche i loro familiari.
Da segnalare anche piattaformadisturbialimentari.iss.it, che rende visibile in tempo reale le informazioni sui centri di cura, per garantire ai cittadini affetti da queste patologie e alle loro famiglie i migliori livelli di accesso e appropriatezza dell’intervento.
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